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C un gigol dentro tutti noi

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L’intenso e particolare romanzo, dallo stile diaristico, di Andrea D’Urso Just a Gigolò aveva già avuto l’apprezzamento della critica, giungendo nel 2013 tra gli otto finalisti della XXVI edizione del prestigioso “Premio Calvino”.

 

Il libro recava, peraltro, in tale “competizione” il diverso titolo di Nomi, cose e città

 

http://premiocalvino.it/?p=5037  

 

a motivo probabilmente di uno dei giochi d’infanzia, quello dall’omonima intitolazione, cui erano dediti il protagonista Pino e la sorella Franca:

 

“Nel letto inoltre ci nascondevamo, soprattutto quando alla sera mia madre cominciava con le scenate di gelosia, mio padre cominciava a bere ed entrambi cominciavamo a urlare […]

 

E allora ci mettevamo a giocare a nomi, cose e città. Un nome con la t, una città con la s, dall’altra parte del muro botte, insulti e grida, ma noi pensavamo al nome con la t e alla città con la s.”

 

(Cap. 2, Nizza, pag. 17).

 

Elemento questo ripreso nell’ultimo capitolo del romanzo:

 

“potremmo [con Elena] giocare a Risiko, potremmo giocare a nomi, cose e città (no, forse meglio di no)”

 

(Cap. 22, Elena, pag. 165).

 

Ulteriore ragione dell’originario titolo dovrebbe attribuirsi inoltre all’andamento “tripartito” dei capitoli, fornito dai tre elementi in questione: sette gruppi di triadi (per un totale di 21 capitoli), ad eccezione del capitolo conclusivo (il 22°, su cui torneremo più avanti), dedicato ad un nome, quello di Elena.

 

In verità la sequenza effettiva sarebbe, per la precisione, Nomi (di donna), Città (italiane e straniere) e Cose (“oggetti” estremamente significativi nei quali il protagonista fa rientrare anche l’amore, il treno e la palestra).

 

Tale aspetto della “partitura ternaria” del romanzo merita una particolare riflessione.

 

Si tratta di tre “blocchi” tematici, tre filoni, sentieri, di lettura: “Nomi”, “Cose” e “Città”, che sono, da una parte, autonomi. Addirittura si potrebbe immaginare una lettura “trasversale”, non “cronologica”, sequenziale, dei capitoli, bensì per area tematica, del libro, accorpando i capitoli aventi la medesima tipologia (penso sarebbe una bella esperienza di lettura).

 

Ma dall’altra, come si accennava, i tre elementi tematici sono perfettamente funzionali al racconto e forniscono unitarietà, dal loro insieme complessivo, al romanzo, poiché ogni area tematica è collegata con le altre per via dei riferimenti che affluiscono al lettore ai fini della costruzione delle vicende e la vita del protagonista (forza “centripeta” dei tre elementi che potrebbero essere considerati, sotto certi versi, anche “centrifughi”, avendo ognuno strade e percorsi propri). In ogni capitolo, infatti, da ciascuna tranche tematica pervengono frammenti che vanno a comporre un quadro che man mano si delinea sotto ai nostri occhi, evidenziando anche un preciso “spaccato sociale”, che pur sullo sfondo emerge ugualmente.

 

E, a tal punto, il riferimento al D’Urso poeta, cui accennavo all’inizio, diventa essenziale.

 

La scrittura del romanzo infatti scorre piacevole e arguta ed echeggia, per l’appunto, con il suo sguardo di disincanto sull’esistenza, sul mondo e le sue immagini, di fronte alla vita, insomma, quella del D’Urso poeta, similmente allo sguardo di Pino, figura principale del romanzo e narratore, accattivante e apparentemente cinica, sprezzante dell’ovvio, ma anche malinconica, senza però alcuna resa di fronte alla vita, da affrontare senza veli, senza infingimenti, senza ipocrisie.

 

L’autore infatti, accanto a vari racconti, ha pubblicato poesie in diverse riviste francesi, canadesi e statunitensi, dando alle stampe la raccolta poetica Occidente Express (Imperia, Edizioni Ennepilibri, 2007), poi ripubblicata in Francia (Le grand os, 2010). Sempre in Francia è stato pubblicato il suo testo poetico Hier est un autre jour (Collection Manos, 2010).

 

E sui contenuti, sulle immagini, sentimenti, sensazioni, che fluiscono via via innanzi ai nostri occhi nello scorre le pagine (ben calibrate nelle varie parti) del romanzo, l’esperienza poetica è da ritenersi fondamentale in Andrea D’Urso romanziere.

 

Come è stato notato, “la modernità ha reso estraneo a sé il poetico”, ma in questa “distanza estrema dalla sapienza antica”, in questo “tempo ‘impoetico’ ” in cui viviamo, l’esperienza del poeta, e più in generale dello scrittore, “può stare in ogni forma di sapere, in ogni forma di linguaggio [… in ] un affinamento della sensibilità: questo per chi, come D’Urso, vuole “guardare nel ‘deserto della vita’ senza l’ombra riposante dell’utopia e senza l’adeguazione alle ideologie del ‘secolo’. Scrutare, corrosivamente e caldamente, i modi del sapere e le forme del potere.”

 

(le annotazioni riportate si collocano all’interno dello splendido saggio di Antonio Prete su Leopardi, Il pensiero poetante, Milano, Feltrinelli, 2006, pag. 192 e pagg. 9-10).

 

In linea con l’atmosfera, con il pathos, che scorre, nel continuo flusso di pensieri del protagonista Pino di Just a Gigolò, riflessioni che attraversano luoghi, personaggi, oggetti, ben possono attagliarsi le note poetiche dello scrittore, quali:  “siamo solo un insieme di parti che non fanno un tutto, ma un’altra ennesima parte”, in un mondo ove “i computers non sbagliano mai/gli errori li hanno già fatti tutti gli uomini”, una vita nella quale “non serve un senso, ma un movente”, in questo “contrasto, o contraddizione, tra il desiderio della felicità – costitutivo dell’essere, connaturale, biologico – e l’impossibilità di essere felici.”

 

(Antonio Prete, Il pensiero poetante, cit., pag. 193; i versi in precedenza riportati sono tratti dalla menzionata raccolta poetica di Andrea D’Urso, Occidente Express, e rispettivamente nei componimenti: La camera oscura, fol. 13; I computers non sbagliano mai, fol. 135; Non serve, fol. 167).

 

Ma è pur vero che si può “sperare che due vite sbagliate/sommate assieme ne facciamo una giusta”, perché può venire “il momento giusto/per tirare su con la cannuccia l’ultimo rimasuglio di ghiaccio,/togliersi gli occhiali a specchio/e guardare lontano

(Occidente Express, Tutto sta, fol. 139 e Gli ultimi giorni della mia vita (Il momento giusto), fol. 84).

 

Accanto a quest’aspetto, forse più immediato, che mette in rapporto, in simbiosi, le due anime dello scrittore, passando dal livello “contenutistico” del romanzo, sostanziale, a quello stilistico, possiamo rilevare come la struttura triadica, la simmetria nello svolgersi del cammino, dia una scansione tutta particolare all’andamento del romanzo, un ritmo che ritorna come un refrain prezioso.

 

Paradossalmente, mentre le poesie di D’Urso sembrano, in apparenza, prive di metrica, perché il ritmo, in realtà, è dato dallo sguardo del poeta e dalle immagini, dalle sensazioni, dalla profondità dell’intimità ricreata nel verso: come sembra far trasparire Cristina Babino nella sua introduzione alla raccolta poetica dell’autore Occidente express

 

“C’è un modo di fare poesia che sta tutto nell’occhio. C’è una poesia che si fa sostanza di uno sguardo nuovo, di un punto di vista eccentrico, ricalibrato, telescopico. Che annulla le distanze, o ne instaura di nuove. Che magnifica i particolari, o li ridimensiona. C’è un modo di fare poesia che sta tutto nel modo di guardare le cose fuori. Come dal vetro di un finestrino, su un veicolo in movimento. La poesia di Andrea D’Urso - col suo verso lungo e lunghissimo che quasi va a capo per necessità, più che per scelta – è uno scorrere senza soluzione di continuità di immagini viste da dietro un finestrino.”

 

(Cristina Babino, Quel che mi ha detto il tram. Sulla poesia di Andrea D’Urso, introduzione alla raccolta di poesie Occidente Express, fol. 5),

 

il romanzo risulta, per la caratteristica “tripartita” che si diceva un libro – direi – poetico, con una precisa metrica, fornita proprio da questa tripartizione derivante dal famoso gioco. E probabilmente dal gioco, nel quale tanti di noi si sono intrattenuti da ragazzi, comincia proprio l’avventura del D’Urso romanziere, che non può essere distinto, ma riceve una preziosità tutta particolare, dal D’Urso poeta.

 

Il nuovo titolo del libro, Just a Gigolò, molto probabilmente dovuto alle "pressioni" della casa editrice (Edizioni e/o), per un nome ritenuto più accattivante per i lettori, richiama la famosa canzone, magistralmente interpretata dal grande Louis Armstrong

 

( https://www.youtube.com/watch?v=AH2_ms1Mu0s  ).

 

autore della musica Leonello Casucci nel 1929; a comporre il primo testo in italiano il paroliere Enrico Frati, poi Bruno Pallesi; la traduzione  successiva in inglese della canzone da parte di Irving Caesar: di lì il grandissimo successo del brano, cantato, oltreché da Armstrong, anche da Bing Crosby e Ted Lewis).

 

La canzone viene evocata da Natalia, una delle tante donne incontrate lungo il cammino da Pino, il protagonista del romanzo, calciatore mancato ma perfetto gigolò:

 

“All’improvviso [Natalia] mi sorride in silenzio, un sorriso prolungato e risoluto.

 

«Che c’è?».

 

«La musica … non la senti?».

 

«Sì, la sento».

 

«Be’, parla di te».

 

Non ci avevo fatto caso. Mi spiega tutto, per filo e per segno. La musica che la radio sta mandando è Just a Gigolò. La voce è quella di Louis Armstrong, ma la canzone è italiana e il testo originale racconta di un giovane ussaro che si guadagna da vivere facendo ballare le donne, perché fare il gigolò non aveva proprio lo stesso significato di oggi.

 

«In fondo anche tu fai ballare le donne, giusto?».

 

«Se intendi metaforicamente è compreso nel prezzo, mentre se intendi proprio alla lettera, devo applicarti un supplemento».

 

Pensavo di farla ridere [...]”.

 

(Cap. 16, Natalia, pag. 121).

 

Mi rimproverano sempre di avere, nella lettura dei testi, il pallino delle ricorrenze. A tal proposito, detto per inciso, il termine “gigolò” ricorre in particolare nel capitolo 16° (vale a dire verso i due terzi del libro che consta di 22 capitoli).

 

Il titolo definitivo del romanzo, probabilmente, può anche ricordare una famosa pellicola cinematografica del 1980 sul tema: American Gigolò

 

( http://www.mymovies.it/film/1980/americangigolo/trailer/  ,

 

il noto film al tempo immortalò l’attore Richard Gere, regista Paul Schrader).

 

Altre pellicole, d’altro canto, vengono evocate nel romanzo (da Risvegli, a Blade runner, a Il grande freddo) come pure, ritornando all’alveo poetico, vari riferimenti possono essere riscontrati ad un attenta lettura.

 

A partire dal prezioso esergo montaliano al romanzo:

 

Occorrono troppe vite per farne una.

 

(Eugenio Montale, L’estate, componimento della raccolta poetica del 1939 Le occasioni),

 

per passare alle Poesie esoteriche di Fernando Pessoa:

 

Dio non ha unità, come potrei averla io?

 

(Cap. 10, Virginia, pag. 68 e 70).

 

Versi “incontrati” e svelati dalle donne nelle quali si imbatte Pino (in questo caso la donna è Natalia), come quelli di un grande poeta del novecento italiano

 

Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita.

 

(Cap. 16, Natalia, pag. 120)

 

“Sono andato a vedere di chi erano queste parole. Sono di un poeta che si chiama Sandro Penna. Non lo conoscevo.”

 

(Cap. 17, Tokio, pag. 124

 

viene da chiedersi rispetto alla sincerità del protagonista: ma quanta parte della critica letteraria italiana lo conosce veramente?).

 

Altri ancora i riferimenti letterari, poi “riscontrati” dal protagonista, quali Il Profumo di Patrick Süskind

 

“Una manager un giorno mi regalò pure un libro, che secondo lei mi avrebbe fatto cambiare idea [sul profumo]. Guarda caso s’intitolava Il Profumo, non mi ricordo di chi è, aveva un nome strano. Una sera ci provai, a leggerlo. Non sono riuscito a superare le prime tre pagine. Lei ci rimase male e non mi chiamò più.”

 

(Cap. 3, Il profumo, pag. 25).

 

Similmente non del tutto gradite dal protagonista sono anche le poesie di Pessoa (Poesie di Àlvaro de Campos):

 

“Il libro mi ha un po’ deluso. La maggior parte delle poesie sono troppo lunghe, quasi estenuanti, non ce la faccio a finirle. A volte non capisco dove vuole arrivare, con chi ce l’ha, cosa vuol dire. Meglio quelle corte, dove ho trovato un altro paio di frasi interessanti. E me le faccio bastare, pe chi come me nella vita non ha mai trovato nulla”

 

(Cap. 10, Virginia, pagg. 70-71).

 

E non manca sempre in tale ambito letterario un riferimento veramente illustre, che prende spunto da una festa a Ibiza organizzata da una “contessa”:

 

“Nel pomeriggio cominciano ad arrivare gli invitati e io mi calo nella mia parte, con il bicchiere in mano. Nulla che non abbia già visto, ce n’è per tutte le latitudini e tutte le tasche. Giovani, vecchi, belli, brutti, reazionari e fricchettoni.

 

C’è il pezzo grosso dell’esercito con la signora e c’è pure lo scrittore anarchico con il signore, anche se mi sarei aspettato un maggior numero di gay. Abbondano invece artisti, artistoidi e artistelli. Ci sono anche, come dire, persone apparentemente normali.

 

È una versione aggiornata della Divina Commedia. Non so precisamente in che girone ci troviamo, ma siamo certamente nel Purgatorio, nonostante non veda ancora nessuno, me compreso, puro e disposto a salire alle stelle.”

 

(Cap. 11, Ibiza, pag. 76).

 

Anche se il nostro amico Pino si affretta poi a dire:

 

“No, non è che ho letto la Divina Commedia, mi sono solo un po’ divertito a spizzicarla qua e là, soprattutto i finali dei canti.”

 

(ibidem, pag. 77. Difatti quello citato è l’ultimo verso dell’ultimo canto del Purgatorio: il verso 145° del canto trentatreesimo).

 

S’era accennato prima all’elemento relativo alla struttura “triadica” dei capitoli.

 

Altra particolarità, diciamo “strutturale”, ma, come l’altra, nel contempo sostanziale, è la circostanza osservata nell’excipit di ogni capitolo: l’ultima parola infatti è sempre il vocabolo “nulla”.

 

E al “nulla” esistenziale (così almeno ritenuto dal protagonista) rimanda un riferimento, questa volta interno e non finale, nel menzionato capitolo dedicato a Il Profumo (riguardo ai particolari “problemi” incontrati nella peculiare professione di Pino):

 

“È come spegnere un interruttore, un clic e non sento più nulla.”

 

(Cap. 3, Il profumo, pag. 24).

 

E proprio in riferimento al vuoto provato ed espresso dal protagonista nella sua vita (quel “nulla” continuamente evocato nella chiusa di ogni capitolo del romanzo) risulta del tutto condivisibile la riflessione che il linguaggio del poeta, dello scrittore è “la terra di un azzardo, di un’avventura estrema: dire l’infinito nell’impossibilità di dirlo […] Perché l’infinito, come il nulla, il linguaggio non lo può raccogliere: ed è questa infigurabilità e intransitabilità dell’infinito che la poesia assume come miraggio della sua avventura” (Antonio Prete, Il pensiero poetante, op. cit., pag. 199).

 

E al disincanto fa da pendant un sorriso, anche amaro, del protagonista e nostro, che ci accompagna sfogliando le pagine del libro e come Laurence Sterne nell’epistola dedicatoria del libro The Life and Times of Laurence Sterne  afferma che

 

“Un sorriso può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita”, così, similmente, la “lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa […] aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita.” (Leopardi, Zibaldone di pensieri, 1° febbraio 1829; per il riferimento a Sterne v. anche in Ugo Foscolo, la prefazione di Didimo Chierico in Notizia intorno a Didimo Chierico pubblicata nel 1813 insieme alla traduzione da parte dello scrittore italiano del romanzo di Sterne).

 

Un accenno (che sarebbe tutto da approfondire) alla trattazione dei personaggi che costellano la storia di Pino, il protagonista del romanzo.

 

Tra questi, le donne incontrate dànno uno specifico titolo ai capitoli (risultando riferimenti peraltro anche negli altri blocchi tematici “Cose” e “Città”), donne che si rivolgono a Pino per la sua particolare professione (tranne la psicoanalista Rebecca, in un capitolo molto importante, il 19°,  anche per gli aspetti affrontati: i sogni, il calcio, il rapporto con gli specchi delle persone della famiglia di Pino e del protagonista); mentre le figure della madre Marisa (e la sua instabilità mentale), del padre (insensibile e donnaiolo – com’è del resto caratteristica dei “maschi” di famiglia), della sorella Franca (con la sua esperienza della droga) appaiono trasversalmente nei vari capitoli, fornendo a volte con più pudore, a volte con più decisione e forza (considerata la drammaticità della situazione familiare e delle tre figure del nucleo in questione),  elementi preziosi. Come, da ogni area tematica, capitolo, vicenda narrata, donna incontrata, e immagine rappresentata prende forma l’immagine di Pino (nome che legandosi al particolare cognome è motivo di ulteriore risentimento nei confronti della figura paterna), con la sua “lettura dell’enciclopedia” e l’essere troppo presi da sé stessi. Vale la pena rileggere insieme alcuni passi significativi in tal senso (n.b. il grassetto è mio).

 

“Nel tempo mi sono fatto una mia idea: leggere l’enciclopedia farebbe bene alle persone. Avrebbe fatto bene ai miei, per esempio. Non tanto perché se avessero saputo dell’esobiologia si sarebbero messi a fare chissà che cosa, ma perché non si sarebbero messi a fare tante altre cose. Un diversivo insomma.

 

Perché siamo tutti, o quasi, troppo presi da noi stessi e avremmo bisogno di allontanarci un po’. Da noi stessi, appunto.

 

Anch’io sono troppo preso da me stesso, altrimenti non farei la vita che faccio. Ma che mi metto a che fare adesso? A lavorare in un call center o in una pizzeria? A fare il modello o un provino per la televisione? A buttarmi dentro un lavoro o progetto, quando il solo progetto qui è di mettertela nel culo, per dirla in fiammingo?

 

No, preferisco fare quello che faccio. Anche perché mi sembra che non sappia fare altro. O che non voglia fare altro. Che vi avevo detto? Sono troppo preso da me stesso. Pure io. Ma l’esobiologia potrebbe fare al caso mio. E poi m’intriga proprio questa cosa che la cultura è ciò che sai dopo che non sai nulla”

 

(Cap. 6, Orologio, pag. 43).

 

Ma lo stesso capitolo 6° dedicato all’Orologio contiene importanti elementi per la ricomposizione della figura del protagonista e appare opportuno, anche in tale caso, riportare alcuni passi del romanzo:

 

“Ricordo esattamente le sue parole [di mio padre]: «Questo orologio apparteneva a mio padre, che l’ha lasciato a me, io lo lascio a te, tu lo lascerai a tuo figlio, che lo lascerà a tuo nipote».

 

Per fortuna al nipote si è fermato. Io ho pensato subito, ancor prima che finisse di pronunciare il suo teorema, che ne stava per andare. Invece no. Purtroppo mi sbagliavo.

 

Ma si sbagliava pure lui, perché io a mio figlio non lo lascerò mai, semplicemente perché non ho mai voluto fare e non farò mai un figlio. Mica per altro, basta pensare alle ultime generazioni della famiglia Silvestre. Mio nonno andava con un sacco di donne, era un puttaniere nel vero senso del termine. Appena aveva un soldo in tasca lo spendeva per andare a puttane. Mio padre andava anche lui con un sacco di donne, ma senza pagare, non ne aveva bisogno, era stronzo ed era bello. Non gli mancava nulla. Io pure vado con un sacco di donne, perché sono bello, ma non sono stronzo e mi faccio pagare. Da mio nonno a me la situazione si è ribaltata, la dissoluzione della specie si è compiuta. Ora non so che potrebbe succedere alla prossima generazione. Non mi meraviglierei se per reazione il prossimo maschio Silvestre divenisse prete o omosessuale. Oppure tutt’e due, perché no.

 

No, non farò mai un figlio. E anche se a mia insaputa l’avessi fatto, non gli lascerò mai quel cazzo di orologio.”

 

(ibidem, pagg. 39-40).

 

Un ultimo spunto di riflessione, tra i tanti e davvero interessanti che offre il romanzo.

 

Si può osservare come il primo e l’ultimo capitolo del romanzo siano dedicati ad una donna (Nome), rappresentando, nella prima tappa del libro, intitolata Marisa, l’inizio del mestiere di gigolò del bello e atletico Pino:

 

Marisa si chiamava la prima donna con cui sono stato. Con cui sono stato a pagamento, intendo. A pagamento che sono stato pagato e non l’incontrario, intendo ancora”,

 

Ma Marisa è anche il nome della “prima donna” “incontrata” in assoluto dal protagonista, che, nonostante tutti i problemi e difficoltà descritte nel romanzo, ha dato inizio alla sua vita:

 

“Marisa è anche il nome di mia madre, anche se non c’entra nulla.”

 

(Cap. 1, Marisa, rispettivamente, pag. 11 e pag. 14);

 

Occorre a questo punto ritornare al D’Urso poeta (cui si faceva cenno in precedenza) che è strettamente, intimamente collegato al D’Urso scrittore: per comprendere appieno l’uno è importante volgere lo sguardo all’altro, in un’osmosi tra due cifre stilistiche molto vicine.

 

E proprio l’ultimo capitolo del romanzo (ritornando all’elemento sopra evidenziato), dedicato nuovamente ad una donna, Elena,  delinea, in contrapposizione rispetto ai problemi e difficoltà che vengono illustrati a partire dal primo capitolo, l’attuale situazione del protagonista (l’ultima da noi conosciuta), che lascia un interrogativo sul suo prossimo futuro, prestandosi a diverse possibili interpretazioni e forse riaprendo un senso, una nuova direzione alla sua vita:

 

Elena è il nome che avrei dato, o cercato di dare, a mia figlia, se ne avessi avuta una. Elena però è anche il nome della ragazza che serve al bancone del bar dove sono ora.

 

E anche lei è qui, ora. A volte mi sorride, a volte io sorrido a lei. Mi sembra una ragazza a posto […]

 

Ho la sensazione di piacerle e non solo fisicamente.”

 

(Cap. 22, Elena, pagg. 163-164).

 

Ma le infinite possibilità che balenano ora davanti agli occhi del protagonista Pino (ed efficacemente rappresentate dal continuo utilizzo del verbo “potere”) si concretizzeranno?

 

“E se Elena potesse essere il nome non solo di mia figlia, ma anche della madre di mia figlia? Certo, ne scaturirebbe un conflitto di interessi, una cosa per volta allora […]

 

Se tentassi un approccio ... Ma perché non lo tento? Cosa mi manca?

(ibidem, pag. 164).

 

E continua il nostro amico a ripetersi questa domanda, lungo quest’ultimo capitolo che snoda innanzi a noi un flusso di pensiero che, stavolta, va via via aumentando la sua acme e capacità di coinvolgimento, di fronte a nuovi sentieri che si mostrano percorribili:

 

“Se non avete nulla in contrario, io proseguo.

Insomma, potremmo uscire insieme […]

Cosa mi manca?

 

(ibidem).

 

“Proseguo. Potremmo cercare una casa […]

 

Cosa mi manca?

 

(ibidem, pag. 165).

 

“Proseguo. Potrei conoscere i suoi genitori […] potremmo […]  potrei […]

 

(ibidem, pagg. 165-166).

 

E lì il sentiero incerto gli si offre tangibile:

 

Potrei pure smettere di leggere l’enciclopedia, potrei essere un buon marito, potrei essere un buon padre, potrei dirle che l’amo, potrei non dirle nulla e amarla, lei, i miei figli, la mia famiglia, potrei.”,

riproponendo anche nell’excipit del capitolo e del libro, a sé stesso e tutt’intorno, il suo interrogativo, che diviene fragoroso, carico di possibilità e vita, a fronte del consueto cinismo e indifferenza

 

Cosa mi manca? […]”,

 

(ibidem, pag. 166).

 

Possiamo dunque chiederci che cosa manca in Pino? E cosa manca in tutti noi?

 

Potremo ancora giocare – o forse sarebbe meglio di no – come ritiene il protagonista del romanzo, Pino, a “Nomi, Cose e Città”?

 

Penso che tali domande, per noi lettori ormai irrimediabilmente coinvolti nelle vicende di Pino, noi che ci chiediamo se quello letto alla fine sarà davvero l’ultimo capitolo, si potrebbero girare allo scrittore Andrea D’Urso che con la sua ironia e disincanto, ma anche con la sua acutezza psicologica, ci ha affascinati lungo il percorso di questa vita, lasciandoci la tensione per un riscatto, per una vita diversa, anche per tanti di noi.

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